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A Parigi l’amico di Israele
Israele è contenta dell’elezione di Sarkozy: il governo esprime la sua soddisfazione e Benjamin Netanyahu, capo dell’opposizione, scrive un’autentica elegia in lode del suo amico Nicolas. Si capisce, i toni restano quelli delle congratulazioni e degli auguri, ma la speranza è che un ruolo nuovo della Francia, il ponte con la Germania che si configura, la diversa predisposizione all’atlantismo, cambino davvero le carte sulla tavola mediorientale. Sarkozy ha detto chiaramente durante la guerra del Libano che gli hezbollah ne erano la causa; ha ripetuto che Israele ha diritto all’autodifesa; ha lodato lo sgombero di Gaza come premessa per una soluzione che prevedesse due Stati per due popoli e ha biasimato l’incapacità e la mancanza di volontà dei palestinesi di prevenire il terrorismo. La Francia di Chirac invece è stata l’epitome dell’ostilità anti israeliana, le sue opinioni sono giunte fino alla diffamazione e al paradosso.
Chirac ha avuto verso la questione mediorientale un atteggiamento unilaterale, di antipatia viscerale per lo Stato ebraico: forse, ciò è in parte dovuto all’antiamericanismo di origine gaullista, un’interpretazione misera del diritto di primogenitura occidentale della Repubblica francese; in parte a un polveroso, insidioso quanto radicato antisemitismo piccolo borghese, in parte vichysta; in parte facile dono alle rumorose minoranze musulmane o omaggio alla cattiva coscienza colonialista; o ancora leziosa ambizione di essere una versione moderna della spada dell’islam nutrita però di interessi molto terragnoli, denaro, imbrogli, «oil for food». E la sinistra a sua volta si è abbandonata in questi anni a intemperanze eccessive contro Israele, da quando nel 1967 - durante la Guerra dei Sei Giorni - la Francia, che era molto più degli Stati Uniti l’ispirazione, l’amore occidentale di Israele, impose l’embargo sul piccolo Paese che combatteva per la vita; da quando De Gaulle puntò sul mondo arabo per creare un’alternativa egemonica agli Stati Uniti, da quando sulla sua scia Chirac si era fatto paladino prima di Saddam Hussein, poi di Arafat che, davvero, rappresentava la sua fonte ottimale per capire i problemi del Medio Oriente, la Francia era diventata per Israele la bandiera di un atteggiamento malato.
Sia Sarkozy che Ségolène Royal si sono accorti del paradosso dello scegliersi un nemico «sionista» nell’era della jihad, avevano identificato che nella politica di Chirac l’elemento nevrosi conduceva al rischio politico eccessivo, anche sul fronte interno, dato che gli immigrati hanno già dimostrato il loro potenziale di essere una bomba ideologica vagante: nessuno può dimenticare la scena di Chirac a spasso per la Città Vecchia che prende a spintoni un agente della sicurezza israeliano dislocato vicino a lui per difenderlo; né si può non percepire la bizzarria delle parole che Chirac pronunciò nel gennaio: dopo tutto non sarà un grande danno - disse - se l’Iran avrà una o due bombe atomiche; o quando pianificò di mandare degli inviati in Iran per chiedere che gli hezbollah, che peraltro non ha mai voluto riconoscere come organizzazione terrorista, risparmiassero i francesi presenti nella missione dell’Unifil e per annunciare che la Francia non avrebbe fatto pressione sull’Iran contro il nucleare.
Sull’Iran, che oggi è certo il più importante argomento per Israele, Sarkozy ha un atteggiamento inequivoco, come è evidente la sua decisione di creare, pure da una posizione alta, di parità, un rapporto molto più amichevole con gli Usa. La visione arafattiana di Israele come nemico dell’umanità non appartiene affatto alla sua cultura e questo ne fa quanto meno un honest broker per il Medio Oriente, ciò che invece certo Chirac non era. Sarkozy più di Ségolène dà fiducia per una storia che potrebbe essere israeliana fatta di umili origini, di un nonno ebreo, di una carissima mamma, di una faccia dolce e anche proletaria da ungherese povero. Fece grande effetto la sua dichiarazione del marzo scorso, quando disse che era arrivato il momento «di dire alcune verità ai nostri amici arabi, ovvero che il diritto di Israele di vivere nella sicurezza non è negoziabile, e che il terrorismo è il loro vero nemico». In quell’occasione dichiarò anche la sua decisione di difendere «l’integrità del Libano, incluso il disarmo degli hezbollah».
Ma l’entusiasmo non deve essere imprudente: si farà presto viva la tradizione del Quai d’Orsay che da quando nel 1893 convinsero un aspirante diplomatico ebreo a ritirare la sua candidatura, fino alla famosa esclamazione dell’ambasciatore francese a Londra «Questo piccolo paese di merda ci porterà tutti alla guerra», è sempre stata poco simpatetica verso gli ebrei, anche se per legge, dal 1920, tutti possono accedere al suo servizio. Di fatto il grande palazzo che siede sulla riva sinistra della Senna ha una tradizione filoaraba romantica, letteraria, pratica, che ha costruito svolte storiche da cui sarà difficile affrancarsi, dalla vendita dei Mirage alla Libia alla costruzione delle strutture nucleari di Ozirak per Saddam, al voto alle Nazioni Unite in cui Israele veniva accusato di commettere crimini di guerra nei territori occupati, al rifiuto di far atterrare gli aerei americani durante la guerra del Kippur, al grande ricevimento per Arafat all’Eliseo in pieno terrorismo... De Gaulle nelle sue memorie scriveva che la Francia era «una potenza musulmana» e che «nessuna situazione può godere di stabilità strategica, politica o economica a meno del supporto arabo». Sarà dura per Sarkozy, anche se davvero lo vorrà, cambiare la tradizione.
Fiamma Nirenstein
1 commento:
Sarkozy è un gran politico e i risultati si vedranno a breve!Nessuno si allarmi, la destra francese non è come quella italiana ancora ancorata al fascismo!
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