Lunedì, 21 Maggio 2007
E grazie alla rete per un pezzo di verità
http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2007/05/21/
A furor di popolo? Questo è certo. Bisogna vedere se il furore basterà a far sì che il documentario BBC sugli abusi sessuali in alcune realtà ecclesiastiche sia trasmesso dalla Rai nel programma di Michele Santoro. Se lo sarà, nel conto dovrà entrare anche un contributo di questo giornale. Che ne scrisse per la prima volta il 2 ottobre del 2006, cioè all’indomani della sua messa in onda da parte dell’ente televisivo britannico. E ne ha poi riscritto venerdì 18 maggio e ancora ieri domenica, e per quattro giorni di seguito su questo sito. A questo proposito, a proposito del sito, c’è chi ha detto che Repubblica.it avrebbe censurato il video. Basterebbe leggere fino in fondo gli articoli: vi si diceva, in quello di venerdì 18, che il video era stato non linkato perché la società detentrice dei diritti per l’Italia aveva diffidato il sito dal farlo, in pendenza del tentativo di vendita ad una emittente italiana. E adesso sappiamo anche qual è il cliente italiano.
Detto questo, del fatto che questo giornale ha parlato del caso quando altri ne hanno taciuto, torniamo al tema chiave della vicenda. Il furor di popolo e la vicenda documentario.
Ho visto quei 39 minuti di televisione. Li ho visti con angoscia, con dolore, e con interesse professionale crescente. Nessuno, nel giornalismo è portatore di verità, ma l’unico giudice dei pezzi di verità contenuti nel nostro lavoro non può che essere il pubblico. Quel documentario va trasmesso, per il bene di tutti, anche per il bene di chi viene accusato di omissioni e reticenze gravissime, perché così potra difendersi. Ma con prove su prove, non urlando. Altro modo di accostarsi alla verità dei fatti non c’è. La censura - perché di questo su tratterrebbe se si scegliesse di non mandarlo in onda - non avvicina alla verità: porta alla barbarie.
Se quel documento verrà messo davanti agli occhi degli italiani, il merito principale e prioritario sarà del movimento che è nato e si è aggregato in rete, con il contributo dei media che hanno creduto di dover fare il loro dovere riferendone. Centinaia di migliaia di persone lo hanno visto nella versione di Google Video, sottotitolata in italiano dal blogger Bispensiero.. Il caso è importante perché, non per la prima volta, ma per la prima volta con chiarezza e forza si afferma una volontà di una parte dell’opinione pubblica, che mette in discussione due cose: l’agenda dei media e la decisione della politica di non voler ridistribuire un documentario che peraltro è girato in parte a Roma - quando si parla del nascondiglio di alcuni dei responsabili degli abusi.
Sotto questo aspetto va detto con la massima chiarezza che chi protesta contro il silenzio dei media ha ragione. Tocca a loro, in via prioritaria, giocare, per la loro stessa credibilità, la partita della trasparenza.
Ma i media nuotano nell’acqua della politica e del potere. E in un paese nel quale una parte importante del parlamento si è battuto per il carcere ai giornalisti nei casi di diffamazione e di intercettazioni pubblicate, come se i giornalisti i documenti se li inventassero, il potere resta molto distante dal criterio del controllo da parte dell’opinione pubblica, anche nelle sue forme più elementari.
Trasmettere quel documentario è un dovere. Senza il movimento che è nato nella rete le poche voci che hanno parlato sarebbero state messe a tacere. I media che fanno il loro mestiere sanno da che parte devono stare.
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