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dal 1996 al 2000
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mercoledì 19 marzo 2008

Repubblica.it intervista il Dalai Lama

Da Dharamsala parla la Guida spirituale
“Agenti cinesi hanno provocato gli scontri”

Il Dalai Lama: “Pronto a dimettermi
se il mio popolo diventa violento”

Appello ai “duri”: “La gazzella non batte la tigre, scegliete il dialogo”
di RAIMONDO BULTRINI

Il Dalai Lama

DHARAMSALA - Il Dalai Lama dice senza mezzi termini che è pronto a “dimettersi” se la situazione in Tibet dovesse finire “fuori controllo”. Lo fa davanti a una piccolo gruppo di giornalisti internazionali venuti qui con noi nella sua residenza circondata da una folla di fedeli in preghiera. Una frase ad effetto che ha fatto presto il giro del mondo, anche se il suo significato è stato da molti interpretato come una rinuncia al ruolo “divino” di Dalai Lama, una carica - almeno finora - non certo elettiva. Da almeno sei secoli infatti, per i buddisti tibetani la sua mente è capace di tornare nella forma umana del leader spirituale dopo ogni morte fisica. Per chiarire meglio questo e altri aspetti emersi nella conferenza stampa, il Dalai Lama ci ha concesso un colloquio esclusivo nel suo ufficio privato.

In che senso ha parlato di dimissioni, Santità?
“A quanti mi hanno accusato di non volere fermare le proteste in corso, ho semplicemente spiegato che io non sono un dittatore, che dice alla sua gente: fai questo, non fare quello. Ho precisato che sono semmai un portavoce del mio popolo. Ma se la maggioranza dei tibetani dovesse prendere la strada della violenza, allora la mia risposta sarebbe quella che ho già dato dopo gli incidenti dell’88: complete dimissioni dal mio ruolo di loro rappresentante”.

I cinesi continuano però ad accusare lei di aver istigato le rivolte.
“Sì, dicono che i miei seguaci bruciano i negozi, uccidono innocenti… Ho già detto molte volte: non usate violenza. Bruciare è violenza, uccidere è violenza. Per esempio, in tv ho visto la foto di un khampa (etnia tibetana dell’est, ndr) con una spada. Non è buono, come non è buono l’uso della violenza da parte di chiunque, siano Usa, Cina o Tibet”.


Ma i tibetani sembrano stanchi di aspettare e molti dicono di non vedere altre vie d’uscita.
“Certe volte alcuni di questi giovani che vogliono l’indipendenza, esasperati per le ingiustizie, vengono da me con le lacrime agli occhi, vogliono combattere. Allora gli dico: ok, servono un fucile, dieci fucili, un sacco di munizioni. Dove li prendete? Mi rispondono: in Pakistan, Afghanistan. E allora come li spedite? Dal Nepal, impossibile, dall’India, impossibile, dal Pakistan, impossibile. Esprimere le proprie emozioni è facile, ma dobbiamo essere pratici. Può la gazzella lottare con la tigre? L’unica arma, l’unica forza è la giustizia, la Verità. Le spiego con un esempio perché la violenza, oltre che sbagliata, diventa controproducente. Anche durante le proteste degli anni ‘80 furono accusati i tibetani di certe stragi che - solo dopo - si è scoperto vennero messe in atto da agenti cinesi mandati a provocare tra i rivoltosi. Impossibile fare un controllo indipendente. Altro esempio, nei giorni scorsi a Katmandu ci sono state vetrine rotte e violenze: abbiamo avuto prove che di nuovo sono stati agenti cinesi per creare tensioni tra comunità locale e tibetani. Lo stesso era successo qui a Dharamsala due anni fa, quando fu bruciato il negozio di un indiano”.

Anche la sua richiesta di autonomia è rimasta però inascoltata.
“Tra i cinesi più educati grazie all’approccio non violento e non separatista raccogliamo un genuino supporto. Se poi cerchiamo l’aiuto del mondo esterno, dell’India, degli Stati Uniti, dell’Europa, è molto difficile ottenere qualcosa con una richiesta di indipendenza. Certo ci vuole tempo. Con le armi forse si risolvono le cose più rapidamente, ma i problemi si ripresenteranno sempre più gravi. Con la collaborazione e la comprensione si eliminano alla radice. Anche nei regimi totalitari le cose cambiano, la leadership cambia, la politica cambia. La situazione cinese di oggi è diversa da quella passata. Se i cinesi diventassero realistici, in poche ore si risolverebbe ogni controversia. So che diffidano di me, ma potrebbero venire qui a Dharamsala, non c’è niente da nascondere, non potranno vedere i miei polmoni, ma possono vedere il mio portafoglio, le mie urine, le mie feci”.

Le sembra realistica un’indagine indipendente?
“Ho scritto una lettera ai nostri amici indiani, americani: per favore, ho detto, aiutateci a raffreddare questo clima terribile. Qualcuno vada a indagare, presto, sul posto, per capire i veri motivi delle tensioni ed evitare che si ripresentino. Per esempio, riceviamo continue informazioni secondo le quali molti tibetani feriti non ricevono assistenza negli ospedali cinesi. Era già successo dopo le manifestazioni dell’87 e dell’88. Ecco come il risentimento riaffiora anche a distanza di venti anni. Certi comportamenti contro la nostra gente hanno segnato le generazioni che oggi hanno 40, 50, 60 anni, ora è una nuova leva a essere trattata allo stesso modo e a ribellarsi: come si pensa di interrompere questo ciclo?”.

Domani (oggi ndr) lei incontra i gruppi che hanno organizzato qui in India la marcia verso il Tibet. Che cosa gli dirà?
“Gli chiederò: che cosa andate a fare al confine? Otterrete così l’indipendenza? Come primo risultato mettete il governo indiano in grande difficoltà. L’India ha davvero fatto cose meravigliose per noi, ci ospita da sessant’anni, ha finanziato scuole, assistenza per la comunità tibetana. Al confine inoltre si scontreranno con i soldati cinesi: a quale fine? Il caso Tibet è difficile, delicato, irrisolvibile con decisioni emotive. E in questo clima di tensione è difficile prendere decisioni razionali”.

Secondo i cinesi il suo popolo è felice sotto il governo comunista, e che è solo lei a creare problemi.
“Certo, dicono che l’unico problema è il Dalai Lama. Ma vede, io qui sono molto felice, non mi manca niente. In realtà il problema è il Tibet: ogni tibetano che vive all’estero, se viaggia nella nostra terra esce con l’impressione di una situazione terribile, quasi ogni famiglia dagli anni ‘50, ‘60, ha subito un lutto, trentamila tibetani sono venuti qui negli ultimi anni. E poi ci sono diverse opinioni tra gli stessi cinesi: alcuni pensano che se il Dalai non ci fosse più le cose sarebbero più facili, altri ritengono che sarebbero invece più difficili. Qual è la verità? In ogni caso non ho intenzione di morire presto…”.
Guarda in alto e ride.

(19 marzo 2008)

http://www.repubblica.it/2008/03/

Il leader buddista incontra a Dharamsala gli esponenti più radicali della comunità in esilio

Cina: «Nel Tibet è questione di vita o morte»

Il capo del Parito comunista a Lhasa: «È in atto un’aspra lotta con la cricca del Dalai Lama»

Proteste davanti all’ambasciata cinese in Indonesia (Epa)

PECHINO - Nel Tibet con il Dalai Lama è in corso «una lotta per la vita o per la morte». È l’atteggiamento della Cina nei confronti delle proteste tibetane che, secondo Pechino, sono state organizzate dal capo in persona dei buddisti tibetani per boicottare le Olimpiadi e gettare discredito sull’intera Cina. «Siamo nel mezzo di un’aspra lotta che comporta sangue e fiamme, una lotta per la vita o per la morte con la cricca del Dalai», ha detto in una teleconferenza ai capi del partito il segretario del Partito comunista del Tibet, Zhang Qingli. «I leader di tutto il Paese devono capire la difficoltà, la complessità e la natura di un lungo periodo della lotta», ha detto in un intervento riportato da Tibet Daily. «Se restiamo un cuore solo, se trasforiamo le masse in una fortezza e lavoriamo insieme per attaccare il nemico, allora possiamo salvaguardare la stabilità sociale e ottenere una piena vittoria in questa battaglia contro il separatismo».

http://www.corriere.it/esteri/08_marzo_19


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